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  • Writer's pictureDorthe Jørgensen

Bellezza - 2

Updated: Apr 26, 2020

Traduzione italiana di capitolo tre del libro Skønhed – en engel gik forbi (Bellezza – un angelo è passato) di Dorthe Jørgensen. Pubblicato da Aarhus University Press nel 2006


L’idea del bello

L’icona sulla mia parete è bella, e pure il disegno della mia maglia di Kenzo lo è. Belli sono i film del regista tedesco Wim Wenders, bella è la visione di Manhattan illuminata dalla luce dei neon, e così pure le Alpi svizzere, la vallata che costeggia il fiume Duero e l’arida campagna siciliana in una calda giornata di settembre. Ma se qualcuno mi chiede di dare una definizione del bello, non indicherò né l’icona, né la maglia di Kenzo, né i film di Wim Wenders, né Manhattan by night e nemmeno i più bei paesaggi che possano esistere al mondo. Perché, come Socrate tenta di far comprendere al sofista Ippia nel dialogo platonico Ippia Maggiore, il bello non può essere una cosa concreta, ma qualcosa da ricercarsi, invece, in ciò che è comune alle cose belle.[1] Nonostante Socrate impegni tutte le sue energie per chiarire il suo pensiero, Ippia non riesce a comprendere. Quando Socrate gli chiede cosa è il bello, egli indica per l’appunto cose diverse, tutte belle: una fanciulla, una giumenta, una lira e una pentola di argilla. Con queste cose però Ippia non dà risposta alla domanda che gli è stata posta, dato che Socrate non vuole sapere cosa è bello, vuole invece sapere cosa è il bello. Nemmeno andando avanti nel dialogo Ippia sarà in grado di dare una risposta, perché egli non comprende affatto la distinzione tra fenomeno e idea, distinzione che è la premessa per la conoscenza dell’idea in quanto tale, ed è proprio intorno ad essa che gravita il discorso di Socrate. Va pure detto che il Socrate di cui si parla qui è una figura letteraria creata da Platone. Il Socrate storicamente conosciuto vedeva nel valore pratico delle cose la loro bellezza, laddove il Socrate che appare nell’Ippia Maggiore smantella questo come altri modi di intendere la bellezza. In altre parole Platone utilizza la figura di Socrate da lui creata per articolare la propria filosofia. Il dialogo tra il filosofo e Ippia serve a spiegare l’intuizione di Platone, secondo cui il bello non può essere una cosa, ma al contrario dev’essere ciò che è comune alle cose che sono belle. Il bello dev’essere proprio ciò che rende belle le cose belle, e di cui perciò tutte partecipano: la pura forma assoluta di bellezza, che Platone chiama idea del bello.


La filosofia della bellezza in Platone è strettamente legata alla sua teoria secondo cui quella parte della realtà, che è quella vera e propria e che in quanto tale costituisce la reale realtà, è quella che consiste nelle idee intese come forme trascendenti. Che le idee siano trascendenti significa che non possono essere oggetto di esperienza empirica, ma che al contrario possono soltanto conoscersi intellettualmente. Il mondo dell’esperienza empirica formato da fenomeni concreti, in cui le forme trascendenti si manifestano come ombre, costituisce di contro una parte della realtà meno vera e con ciò anche meno reale. Eppure, grazie al manifestarsi delle idee come ombre nei fenomeni – o, possiamo anche dire, grazie alla partecipazione dei fenomeni alle idee – esiste un legame tra questi due piani della realtà. La bellezza sensibile delle cose concrete può pertanto non rappresentare tutta la verità sulla bellezza. La bellezza sensibile, che secondo Platone è relativa, fugace e mutabile, rimanda alla bellezza spirituale del mondo delle forme, e attraverso essa va oltre, all’idea del bello che è assoluta, eterna e immutabile. Ciò che Platone intende dire con queste asserzioni è che l’idea del bello si esprime nelle cose perché la loro bellezza sensibile è un riflesso dell’idea; in compenso l’idea in sé non può essere qualcosa di sensibile, ma deve al contrario avere un’esistenza autonoma, indipendente dai singoli fenomeni in cui si manifesta. In tal modo Platone amplia quello che era il modo di intendere la bellezza (to kalon = tutto quanto merita di essere apprezzato) diffuso in Grecia prima di lui, fino a comprendere anche il trascendente (vale a dire ciò che non si può conoscere per esperienza empirica), e la sua filosofia della bellezza prende perciò la forma di una metafisica della bellezza. Secondo questa metafisica non è la bellezza sensibile, ma quella trascendente da intendersi come la vera bellezza, che può essere conosciuta soltanto intellettualmente mediante una contemplazione mistica. Infatti, secondo Platone ad uno stadio precedente in cui l’uomo era pura anima ha contemplato la bellezza trascendente, e alla vista delle cose belle ne ha reminiscenza e comincia ad anelare ad essa. In altre parole la bellezza sensibile delle cose concrete ci porta a impiegare tutte le nostre forze e capacità per conoscere l’idea del bello. In questo modo la bellezza sensibile risveglia in noi l’amore per la ricerca della conoscenza, che i greci chiamavano filosofia, e che secondo Platone è l’unica ragione per cui la vita merita di essere vissuta.


La filosofia di Platone relativa all’idea del bello è nello stesso tempo una filosofia sul vero e sul bene, perché il bello non è soltanto ciò che è apprezzabile. In quanto apprezzabile è anche ciò che ha valore in sé, o, al contrario, che ha esigenza di essere conosciuto, perché ha valore in sé. Così il bello è l’assoluto, perciò comprende anche il vero e il bene, che danno ad esso la possibilità di manifestarsi sensibilmente, come bellezza. Questa metafisica della bellezza può essere, ad esempio, studiata nei dialoghi Ippia Maggiore, Simposio e Fedro, in cui Platone passa in rassegna i diversi concetti di bellezza, che già esistevano ai suoi tempi. Oltre al concetto di armonia del pensiero pitagorico, si parla anche della concezione dei sofisti che identificavano il bello con il piacevole sensibile e della teoria socratica secondo cui il bello corrisponde all’utile e all’opportuno. In questi dialoghi si trova anche traccia dell’originaria identificazione orientale della bellezza con luce e splendore, che, tramite Plotino, assumerà importante significato per la filosofia della bellezza nel medioevo; e di quell’identificazione della bellezza con la perfezione, che diverrà centrale per i razionalisti posteriori. Platone non si accontenta, però, di mostrare le carenze dei vari concetti di bellezza esposti. Contribuisce egli stesso con la sua metafisica della bellezza a qualcosa di nuovo. Perché anche se i pitagorici interpretavano la bella forma come una testimonianza della ragione cosmica, per loro la bellezza si identificava con la forma, intesa come quell’armonia che essi, ad esempio, osservavano in musica, nel rapporto tra i suoni. Se Socrate avesse chiesto loro cosa fosse il bello, avrebbero in altre parole additato la musica, così come Ippia indica una fanciulla. Non avevano alcun concetto del bello in quanto tale, laddove Platone distingue in modo sistematico tra bellezza sensibile e bellezza trascendente. Il pensiero metafisico, da lui così introdotto, diverrà da questo momento centrale non solo per l’estetica medievale, ma, ad esempio, anche per filosofi italiani del Rinascimento come Marsilio Ficino, e per idealisti tedeschi come Friedrich Wilhelm Joseph Schelling.


Oggi, però, esistono delle persone che non ne vogliono sapere di questa ricca tradizione. Tra le cause della perdita di centralità della metafisica della bellezza se ne possono menzionare diverse. Dato, però, che nei prossimi capitoli avremo moltissime occasioni di discutere il concetto di bellezza, ora preferisco soffermarmi soprattutto su quell’avversione alle idee che si può riscontrare al giorno d’oggi. Sin dall’antichità l’attività dei filosofi si è concentrata a riflettere su idee, come ad esempio, l’idea di bello, e in tempi recenti è nata pure una disciplina di studio chiamata History of ideas (in italiano, Storia del pensiero). A livello internazionale essa venne fondata dal filosofo americano Arthur O. Lovejoy agli inizi del XX secolo; in Danimarca la disciplina inizia la sua storia nel 1962 con la pubblicazione dell’opera di Erik Lund, Mogens Pihl e Johannes Sløk, De europæiske ideers historie (Storia delle idee in Europa). La storia del pensiero è una moderna forma di filosofia, che non soltanto riflette su cosa siano le idee, o su quale validità precise idee abbiano, ma analizza anche le idee nel corso della storia. É accaduto, però, che negli ultimi anni alcuni storici delle idee abbiano iniziato a non volersi occupare delle idee, senza accontentarsi di voltare essi stessi le spalle alle idee. Anziché indicare con un appellativo diverso la propria occupazione, e chiamarsi, ad esempio, archeologi del sapere o storici della scienza, denominazione che probabilmente sarebbe più precisa, stigmatizzano quegli storici del pensiero che si attengono all’oggetto della disciplina, per il loro platonismo fuori del tempo. Ma dimmi un pò, caro Ippia, come si può pensare di studiare la storia delle idee, e non volerne sapere delle idee? Perché Platone, che nel corso dei tempi ha improntato di sé un infinito numero di pensatori, è diventato all’improvviso una fonte d’ispirazione tanto dubbia? E com’è possibile che proprio chi si occupa delle idee riesca ad equiparare il modo platonico di intendere l’idea con ogni qualsiasi altra formulazione al riguardo, come se la nostra concezione di cosa siano le idee, non abbia una storia?


Dovrebbe risultare del tutto ovvio a chi si occupa della storia del pensiero, che Platone ha formulato soltanto una delle diverse dottrine storiche su cosa sia da intendersi con idea. Il concetto di idea cambiò già nell’antichità, in particolare con Aristotele, dato che egli non considerava le idee come trascendenti, ma, al contrario, immanenti. Secondo la concezione di Aristotele, le idee sono contenute nelle cose concrete come le ‘forme’ nelle cose, che fanno sì che le cose diventino ciò che realmente sono. In un seme di papavero è contenuto il papavero completamente sviluppato in quella forma intesa come quella possibilità di sviluppo, che rivela cosa sia il seme in questione, ossia non un seme qualsiasi, ma il seme di un fiore di papavero e con ciò precisamente un seme di papavero. Tuttavia la filosofia di Aristotele porta ancora in diversi modi una forte impronta della filosofia di Platone. Ad esempio per quanto Platone intenda le idee come trascendenti, ciò non significa che esse fluttuino nel cielo. Come precedentemente accennato, si tratta, invece, che di esse non si possa avere esperienza empirica, ma che vadano conosciute intellettualmente, e nemmeno Aristotele, di fatto, si immagina che le forme delle cose si possano prendere e sperimentare. Il modo di intendere l’idea cambia con Aristotele, però, anche in un altro senso. Come detto nel capitolo precedente, nella Poetica egli parla anche di una certa idea nella coscienza dell’artista che si materializza nell’opera come l’unità nella molteplicità che rende l’opera un organismo vivente. Platone, invece, non parla affatto di qualcosa che possa in qualche modo assimilarsi al concetto di idea immanente alla coscienza, intesa come la fonte soggettiva dell’opera; nemmeno in dialoghi quali ad esempio il Fedro, anche se qui dimostra un’esperienza approfondita su come l’anima umana debba lottare contro forze interne, come ad esempio collera o intemperanza.


L’impiego in Aristotele della parola ‘idea’ per indicare qualcosa di diverso dalle forme trascendenti, ossia qualcosa appartenente alla coscienza stessa dell’uomo, si amplia molto più di altre accezioni sul finire dell’antichità. Plotino è dell’idea che la bellezza sensibile della forma esteriore di un oggetto non sia dovuta a qualcosa di sensibile, ma a qualcosa di spirituale nella forma stessa. La forma sensibile esteriore e la bellezza dell’oggetto rispecchiano una forma e una bellezza interiori spirituali, che a loro volta rispecchiano l’idea del bello. In tal modo la bellezza sensibile prende in prestito la sua bellezza dalla bellezza spirituale, che a sua volta prende in prestito la sua bellezza dall’idea. Per di più egli ritiene che il compito più insigne dell’arte debba essere nella sua funzione di specchio dello spirito, e che essa perciò non debba soltanto copiare oggetti visibili, ma al contrario tendere idealizzando verso i principi della natura. Quando ciò riesce, l’opera non imita la natura, anche se forse la rappresenta, perché la sua forma sensibile esteriore non ha come riferimento la natura sensibile, ma l’idea che l’artista ha della natura. Questa idea in effetti alloggia nell’opera come forma interiore spirituale di essa, che si rifà all’idea del bello, e che nello stesso tempo trova espressione nella forma sensibile esteriore dell’opera. Plotino ritiene più precisamente che l’idea che l’artista ha della natura compenetri l’opera ad un livello tale nella fase di creazione, che la forma interiore si trasforma nella forma esteriore, operazione con cui lo spirito si concretizza nella materia. In tal modo l’idea dell’artista viene rappresentata sotto forma di opera, e l’opera d’arte sensibile viene così a rispecchiare l’idea del bello nella sua forma concreta. In Plotino la parola ‘idea’ indica pertanto sia l’idea del bello, che è trascendente, sia l’idea che è nella coscienza dell’artista, che, al contrario, è immanente. Per Platone la parola ‘idea’ stava, invece, soltanto a significare le forme trascendenti, mentre per Aristotele solo la parola indicava l’idea che è nella coscienza dell’artista (le forme delle cose non le chiamava idee, ma forme). Inoltre Plotino considera l’idea presente nella coscienza dell’artista come metafisica, perché essa riflette l’idea del bello, laddove Aristotele la considerava come un fenomeno psicologico. Secondo Plotino esiste in altre parole un modello superiore dell’opera al di là dell’opera stessa, appunto in forma di idea del bello, e questo non è creato dall’artista. Anche se l’artista è un interprete autonomo, non per questa ragione è un genio, allo stesso modo in cui la sua opera non ha il carattere dell’originalità.


La metafisica della bellezza di Plotino rappresenta la cosiddetta estetica oggettiva che fu dominante fino all’epoca del filosofo tedesco Immanuel Kant. Secondo questa forma di estetica, che nasce dalla filosofia pitagorica, la bellezza è una qualità oggettiva dell’oggetto, sia che si parli delle cose concrete del mondo, mondo inteso come totalità, sia che si parli di Dio. Nel contempo l’uso che Plotino fa del termine ‘idea’, indicando un fenomeno immanente della coscienza, fonda una parziale soggettivazione dell’idea, anche se, come già è stato detto, egli non interpreta il fenomeno in questione psicologicamente, ma metafisicamente. Questa soggettivazione si afferma definitivamente con l’estetica soggettiva di Kant: nell’interpretazione kantiana, la bellezza non è più intesa come una qualità intrinseca dell’oggetto, ma, al contrario, come un prodotto della stessa coscienza umana. Nella filosofia di Kant, infatti, le idee non sono più forme trascendenti, così come lo erano per Platone e (parzialmente anche per) Plotino e per tutti i loro seguaci nel medioevo e in epoca moderna. Così come la bellezza, le idee diventano ora, invece, qualcosa che non soltanto è nella coscienza dell’uomo, ma che la stessa coscienza ha creato direttamente. In tal modo Kant distingue tra i concetti dell’intelletto, come per esempio il concetto di cosa o il concetto di causa, che sono costitutivi della conoscenza e che possono interpretarsi con l’aiuto di cosiddetti skemata, e concetti della ragione, come ad esempio le idee di Dio, di anima, di mondo che sono soltanto regolative per la conoscenza e che non si lasciano interpretare. In altre parole egli utilizza il vecchio termine platonico di ‘idea’ come un sinonimo di ‘concetto della ragione’, indicando con esso non qualcosa che ci giunge dall'esterno, ma, al contrario, qualcosa che noi stessi creiamo con la nostra coscienza per poterci orientare in rapporto a ciò che non possiamo conoscere con l’intelletto, ma a cui comunque aspiriamo con la nostra ragione, e che chiamiamo, ad esempio, Dio, anima o mondo come totalità.


Quegli storici delle idee che non possono o non vogliono occuparsi di idee, sono naturalmente una contradictio in adjecto, sono un controsenso. Il dibattito non riguarda però soltanto in quale misura vi sia rispondenza tra come ci si chiama e ciò che si pratica; non è soltanto una domanda sulla forma, ma anche sulla sostanza. Se si respingono le idee in quanto tali perché non se ne conosce la storia – non occupandosi di conseguenza minimamente di idee – non saranno soltanto le forme trascendenti a sfuggire di mano, ma anche tutto ciò che secondo Kant è inerente alla ragione. In tal caso non possiamo più pensare o parlare di altro se non di ciò che si lascia cogliere dalle categorie dell’intelletto, come ad esempio, i concetti di cosa e di causa, e questo in realtà è infinitamente poco. Pretendere dagli storici delle idee, e con essi presumibilmente anche da altri, di astenersi dal lavorare con le idee, porta perciò a risultati orribili. Se cessiamo di occuparci di idee finiamo in un regime in cui domina l’intelletto, in cui tutti i fenomeni vengono ridotti a mere cose, e tutti i problemi a questioni di causa ed effetto. Il che non equivale soltanto a eliminare la storia delle idee in quanto storia delle idee; è come abolire gli studi umanistici in quanto studi umanistici; comportamento che per forza di cose non dà alcuna possibilità di occuparsi della bellezza filosoficamente. Ci sono, pertanto, buoni motivi per tener vive le idee, tra cui l’idea del bello, per poter continuare e sviluppare quella riflessione filosofica a cui Socrate tenta di introdurre Ippia nell’Ippia Maggiore e di cui Kant fornisce la sua moderna versione nella Critica del giudizio (1790).


Gal Weinstein, "Sun Stand Still" (installation view). Israel Pavilion, Venice Biennale 2017. Private photo, © Dorthe Jørgensen
Israel Pavilion, Venice Biennale 2017. Photo by Dorthe Jørgensen

È, però, più semplice spiegare la necessità di riflettere sulle idee, ricollegandosi, come si è fatto fino ad ora, a Kant, piuttosto che facendo riferimento a Platone. La nostra cultura attuale è senza dubbio improntata ad un modo di pensare guidato dall’intelletto, che quasi automaticamente trasforma i fenomeni che osserviamo, in cose, e i problemi di cui discutiamo in questioni di causa ed effetto. Eppure la maggior parte di noi comprende, anche se solo intuitivamente, che questo modo di pensare non sempre è il più appropriato. Che il mio amato sia per me un oggetto del mio innamoramento? E c’è davvero sempre una causa comprensibile per quel sentimento di gioia o di tristezza che mi assale improvvisamente, per scomparire con la stessa rapidità con cui era arrivato? Anche se noi organizziamo la società in un’infinità di campi, compreso il sistema scolastico, come se fossimo in grado di cavarcela con il solo intelletto, la maggior parte di noi sa bene di non poter rinunciare alla ragione. Senza la ragione non possiamo pensare o parlare di molto di ciò che ha maggior significato per noi, vale a dire, come è già stato enunciato, proprio i concetti della ragione, da Kant chiamati idee. L’intento di convincere il moderno lettore dell’importanza della dottrina delle idee di Kant risulta abbastanza realizzabile, laddove lo stesso obiettivo vacilla di più quando ci si riferisce alle forme trascendenti di Platone. Esiste, in effetti, per primo una diffusa visione, secondo cui Platone considera le idee come entità autonome, che vivono una vita loro in un altro mondo, quasi come quando si immagina Dio come un vecchio barbuto che sta in cielo. Esiste poi anche un’altra diffusa visione secondo cui tutto è storicamente mutabile, e che pertanto non esiste nulla di eterno e immutabile, come, invece, Platone ritiene che siano le idee. La prima di queste visioni può facilmente essere confutata, semplicemente perché è errata: per quanto sia ambiguo il modo di intendere le idee da parte di Platone, esiste certamente un legame tra idea e fenomeno (come detto, l’idea si manifesta come ombra nel fenomeno), e perciò le idee non sono soltanto entità che fluttuano nel cielo. La seconda di queste visioni richiede al contrario una riflessione più approfondita.


Nella nostra cultura cristiana Dio ha tradizionalmente denotato l’essenza di tutto ciò che è eterno e immutabile. Secondo la filosofia della bellezza medievale Dio è vero, buono e bello; e tutto il vero, il buono e il bello rimanda a lui, perché, per così dire, prende in prestito la sua verità, la sua bontà e la sua bellezza da Dio. In altre parole per la filosofia medievale della bellezza, Dio sta al vero, al bene e al bello, come l’idea del bello di Platone stava alle cose belle. Lo status di Dio è però nel frattempo divenuto molto più piccolo rispetto al medioevo. Anche se ancora molti si riconoscono nel cristianesimo, e forse addirittura in questi anni assistiamo ad un risveglio del sentimento religioso, il modo di pensare del mondo occidentale è divenuto generalmente molto laico. Questa laicità è il prodotto di un lungo sviluppo, la cosiddetta secolarizzazione, che ha condotto con sé, tra l’altro, alla conoscenza della maggiore influenza che l'essere umano ha sulla propria vita e sul suo mondo, rispetto a quanto si credesse in precedenza, e la consapevolezza che l’umanità perciò è improntata dalla mutevolezza della storia molto più di quanto non si supponesse in passato. Questa consapevolezza è stata un medicinale salutare contro il cieco pensiero autoritario; il problema è che però essa oggi viene assurta a qualcosa di assoluto e indiscutibile, dicendo che tutto è storicamente mutabile, e che perciò nulla esiste di eterno e immutabile. Le cose di cui noi umani abbiamo conoscenza diventano oggetto di interpretazione grazie alle competenze che abbiamo acquisito su di esse, e per questo esse sono contraddistinte dalla storia. Ma un conto è: come qualcosa ci appare; altro è: cosa questo qualcosa è in sé. Per noi è impossibile dire con certezza che non esiste nulla di eterno e immutabile, perché in quanto uomini non possiamo sapere nulla di preciso al riguardo.


Più si studia ciò che è stato tramandato dal passato, più si avverte non soltanto la rottura, ma anche la continuità della storia. Le differenze tra il mondo antico e quello moderno sono ovviamente evidenti: nell’antichità le donne non avevano diritto al voto, esisteva la schiavitù, la maggior parte degli uomini credeva ad una nidiata di divinità, essere intellettuali era un onore, ecc. Ad ogni modo, a differenza di quanto si potrebbe credere, non è poi così difficile immedesimarsi negli scritti e nelle opere d’arte giunte fino a noi. La metafisica di Platone può certamente risultare qualcosa di singolare per un diciannovenne, a cui scuola, mezzi di informazione e forse anche i suoi genitori hanno riempito la testa con ‘la morte dei grandi narratori’. Nonostante la cultura del nichilismo postmoderno, a cui un tale diciannovenne è stato esposto, in linea di principio non è, però, del tutto impossibile per lui/lei comprendere il pensiero di Platone. La filosofia di Platone infatti è sorta da esperienze che gli uomini hanno condiviso attraverso i secoli, come, ad esempio, l’esperienza della bellezza; e questa è il prodotto di un pensiero filosofico, di cui neanche la logica è legata al tempo e allo spazio. Di certo nel corso della storia sono state date risposte diverse al quesito sulla natura del bello. In passato, ad esempio, si coltivava l’ideale di armonia delle forme ben proporzionate, laddove l’arte del XX secolo ha inseguito altre caratteristiche, tra cui la capacità di essere espressiva. Ma quel sentimento che si prova quando si percepisce qualcosa come bello, sia che si preferiscano le forme armoniche sia che si preferiscano le forme espressive, è forse lo stesso, e in ogni caso non si può dire con certezza che non lo sia. Allo stesso modo un dialogo di Platone risentirà ovviamente del mondo ad esso contemporaneo: nel Simposio i partecipanti alla festa sono sdraiati intorno al tavolo: scene di questo genere raramente si vedono alle feste di oggi. Ma quelle richieste di consistenza logica, che Socrate suscita, tra le altre, tramite il suo modo di discutere con gli altri, hanno ancora oggi validità. In altre parole nella riflessione filosofica esistono dei tratti che resistono bene alle offese del tempo, tanto che sembra più giusto parlare di essi come incorruttibili che come transeunti.


In questo modo non voglio dire che il concetto di bellezza non abbia storia. Ce l’ha, eccome! Perché è vero che la definizione della bellezza è cambiata molte volte nel corso della storia, ma è possibile concepire le molte definizioni come elementi di una stessa storia, considerandole interpretazioni diverse della stessa cosa. Anche se il concetto di bellezza ha una storia, ci deve essere dunque qualcosa di a-storico nella bellezza, e questa è l’idea del bello, senza cui l’aspetto storico – cioè le molte definizioni – non può affatto intendersi come storico. Diciamo che per poter comprendere le molte definizioni del concetto come elementi della stessa storia possiamo fare una distinzione dello stesso tipo di quella di cui Socrate tenta di far intendere la necessità a Ippia, e con cui introduce l’idea del bello. L’idea è un prodotto di questa distinzione, che è una premessa per poter parlare non solo dell’individuale, ma anche del complesso, o non solo del particolare ma anche del generale. Ciò equivale senza dubbio a dire che l’idea è creata dall'uomo, e come è emerso nel volume dalla storia del modo di intendere l’idea, significa che essa stessa è vittima dei cambiamenti storici. Vista in rapporto alla concreta molteplicità, a cui l’idea dà struttura, essa costituisce nel contempo l’immutabile, che è premessa in generale per poter vedere le cose in prospettiva. In altre parole le idee non saranno eterne e immutabili in senso assoluto, ma lo sono comunque in senso relativo, e il bisogno di riflessione sulle idee come, ad esempio, sull’idea del bello è rimasto invariato. La sola negazione del concetto di idea di Platone e l’accettazione di quella di Kant, che ho anticipato nel testo, dipendono perciò forse soprattutto da un’esagerazione della differenza tra questi pensatori. Forse in realtà non è tanto il modo platonico di intendere le idee in sè a costituire il problema; forse dipende piuttosto dalla potestà suprema di Platone come pensatore, che in alcuni risveglia il desiderio di rivolta contro il padre, e che in queste faccende di regola viene sacrificato ben oltre il necessario.

[1] Non si sa con certezza se l’Ippia maggiore sia stato scritto da Platone o da qualcuno dei suoi allievi; ma dato che l’opera è tradizionalmente considerata come parte integrante del corpus dei testi platonici, il quesito non ha alcuna rilevanza nel nostro contesto.


Traduzione di Maria Adelaide Zocchi


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